mercoledì 10 febbraio 2010

EDUCAZIONE/ Horror e cultura di morte: ecco come combattere la "moda" del nichilismo

C’è nello “spirito del tempo” che stiamo attraversando, una inquietudine ed una perdita di fiducia nel futuro, che corrisponde all’affermarsi di una cultura, per certi aspetti esteriori, edonistica e vitalista, per aspetti più profondi legata al tema della paura e della morte. Elementi rielaborati da mode che si affacciano nei diversi campi (musica, arte, letteratura) oltre che negli stili di vita, soprattutto giovanili, alludono in maniera più o meno esplicita ad una cultura horror. Nel campo educativo stranamente alla paura che serpeggia nelle coscienze degli educatori, spesso sfiduciati e purtroppo dominati dalla convinzione che ormai non abbia senso educare, corrisponde nelle mode ed interessi giovanili una cultura dell’horror che pervade vissuti e stili di vita. Tratto comune di questa stessa paura - ben documentata nel dibattito culturale sul nichilismo- è di fatto l’assenza di un fine di bene, che dia senso e che giustifichi con positività il senso dell’agire e dell’educare. È il pensiero debole che affacciandosi nell’educazione, riduce a moralismo (che sappiamo valere zero) il senso della relazione, del bene, del bello, del giusto.
Se nulla infatti ha senso cosa resta? Un Ego da risarcire e da affermare, anche se nelle forme più assurde e perfino a volte disperatamente spietate (vedi le tante Bestie di Satana e Meredith). È così che nel mondo delle esperienze giovanili tendono sempre più a svilupparsi e a fondersi i fenomeni della droga, del bullismo, della banalizzazione della sessualità, del disprezzo delle relazioni e della vita, revival di paganesimo e di occultismo. Si sottovaluta il significato di queste componenti dell’immaginario giovanile che poi non è tanto distante da quello dell’uomo d’oggi. Di un uomo apparentemente razionale, che rimuove sempre più le dimensioni dell’ignoto e del mistero salvo poi farle riemergere in forme irrazionali (a volte esoteriche) nelle infinite contraddizioni dei suoi vissuti. Da due secoli circa, (e oggi con intensità mai prima sperimentata, attraverso l’eugenetica di massa) si riaffaccia il mito dell’uomo che si fa da solo e che può dare e togliere (oppure darsi e togliersi) la vita. E’ il mito frankensteiniano, quanto mai attuale, che ripropone oggi un uomo oscillante tra “disperazione del non senso” e “delirio di onnipotenza”: dalle emozioni delle pasticche in discoteca alla dolce morte.
A volte sembra che l’infierire del branco sul ragazzo più debole se non disabile, l’allungare le mani sulla professoressa, gli intriganti e perversi giochetti di manipolazione delle coscienze di tante trasmissioni alla Maria De Filippi, corrispondano ad un unico disegno assurdo ma profondamente coerente cinico e disperato. È il disegno di un mondo in cui, la semplicità e la dimensione della bellezza è brutalmente violentata e rimossa. Roba da bacchettoni, da chierichetti, da gente che non ha capito niente della vita. È grande la sfida che la scuola e l’educazione dovrebbe accogliere uscendo dalla logica degli interventi parziali, che intervenendo solo sugli epifenomeni (tabagismo, droga, bullismo, sessualità, legalità) non riesce a cogliere il problema nella sua totalità, che è di senso, cioè di senso smarrito delle cose, dell’agire e purtroppo anche del vivere. Sarebbe allora interessante scoprire il senso di tali condizionamenti culturali in atto, affrontando “a volto scoperto” la sfida.
Faccio un esempio: studierei con i miei alunni i testi di canzoni rock sataniche di Marylin Manson, analizzerei il personaggio e decodificandone i segni si giungerebbe a svelare la menzogna del messaggio: “io i faccio da solo e sono padrone di me di tutto”. E allora sì che mostrerebbe tutta la sua pregnanza e il suo fascino riprendere “la Divina Commedia”, per ritrovare gli stessi temi affrontati con lo spessore e la sapienza e l’orizzonte dei veri grandi. Sperimentando – è chiaro che bisogna crederci – la positività di una risposta alle eterne domande sulla ricerca di senso. Probabilmente gli adulti e la scuola, se avessero il coraggio di guardare i ragazzi per quello che sono, potrebbero fare tantissimo: se solo ci si ponesse, uscendo dagli schemi comodi e rituali, in una feconda posizione di ascolto curioso ed esperto. È un passaggio delicato: è decisivo quest’atteggiamento di ascolto curioso ed esperto; presente solo nei grandi educatori (famosi e anonimi), costituisce la condizione essenziale perché abbia senso l’azione (o meglio la relazione) educativa. Sia che questa si avvalga di nuove metodologie didattiche non ridotte a rituali (“ricerca azione” e “didattica laboratoriale”) sia che prevalga la spontanea passione e creatività dell’insegnante.
È ancora una volta decisiva in questa sfida in atto, di cui purtroppo non si coglie la portata epocale, la centralità dell’ adulto (sì, dell’educatore) che “voglia mettersi in gioco” e che non riduca sperimentazioni e positive spinte innovative ai vuoti rituali del “registro e delle carte a posto”. È il senso della vita in discussione e il tema è troppo importante per non parlarne e non assumersene la responsabilità.

(Franco Lorusso da www.ilsussidiario.net)

lunedì 8 febbraio 2010

Pensando alla morte di Sandro

Pensando alla morte che ha carpito Sandro, riflettevo su quanto sia preziosa la vita e su come si perdano tante occasioni giudicando le persone, sparlando e creando fratture invece che ponti e riconciliazioni...La vita è una sola e dovremmo cercare di viverla al meglio, amando senza riserve e perdonando, invece che sprecarla nei rancori, nel facile costume del pettegolezzo malevolo che alimenta il sospetto e l'inimicizia.
Ieri mi sono sentito molto solo, pur desiderando anch'io un po' di conforto... Nella sofferenza degli altri ho trovato muri gelidi più che braccia aperte di condivisione dei sentimenti e delle forti emozioni di quel momento...
In verità, sono stato già ucciso in questa parrocchia, tempo fa... attraverso un giro di calunnie su di me, che mi hanno arrecato tanto dolore...ho perduto delle amicizie, che ieri ho sperato di ritrovare, ma non è stato così... pazienza... per ora...
E' un momento di crescita anche questo: fare i conti con una gestalt aperta che quando si sfiora fa ancora un po' male...
C'è una gioia, però, e nasce dall'ascolto che mi ha donato il mio amore, dall'abbraccio con Gianni, dalla condivisione di un'emozione forte al telefono con don Antonio e dall'sms di Gabriele, dal pianto di Simona, da Cristian, col quale è bastato un saluto commosso per dirci tutto, Daniele C. e Cassandra, che non vedevo da secoli ma il cui abbraccio mi ha fatto bene...
Pochi sguardi e pochi cuori incrociati fra la gran folla immersa nel dolore...capaci, però, di donarmi un po' di colore e calore...
In fin dei conti, allora, non ero poi così solo...

Franco Basaglia, la rivoluzione nel mondo della psichiatria e della malattia mentale

« Dal momento in cui oltrepassa il muro dell'internamento, il malato entra in una nuova dimensione di vuoto emozionale ([...]); viene immesso, cioè, in uno spazio che, originariamente nato per renderlo inoffensivo ed insieme curarlo, appare in pratica come un luogo paradossalmente costruito per il completo annientamento della sua individualità, come luogo della sua totale oggettivazione.

Se la malattia mentale è, alla sua stessa origine, perdita dell'individualità, della libertà, nel manicomio il malato non trova altro che il luogo dove sarà definitivamente perduto, reso oggetto della malattia e del ritmo dell'internamento. L'assenza di ogni progetto, la perdita del futuro, l'essere costantemente in balia degli altri senza la minima spinta personale, l'aver scandita e organizzata la propria giornata su tempi dettati solo da esigenze organizzative che – proprio in quanto tali – non possono tenere conto del singolo individuo e delle particolari circostanze di ognuno: questo è lo schema istituzionalizzante su cui si articola la vita dell'asilo »


Questo dichiarava Franco Basaglia a proposito delle condizioni in cui erano costretti a vivere, prima della legge che egli stesso istituì nell’1978, i malati mentali. Il 7 e l’8 febbraio su Rai Uno è in onda la fiction “c’era una volta la città dei matti” che racconta il lavoro dello psichiatra italiano diventato famoso in tutto il mondo per avere distrutto il regime “carcerario”, eprhcè di questa trattasi dei manicomi. Un’interpretazione straordinaria quella di Fabrizio Gifuni nel ruolo di Basaglia, ma anche di tutto il cast che interpreta magistralmente emozioni difficili, vissuti complessi.


Una fiction curata, dettagliata, realistica e priva di faziosità che rende perfettamente l’idea di quanto rivoluzionario sia stato il lavoro di quest’uomo che, insieme ad un’equipe straordinaria e alla grande complicità della moglie, è riuscito a mettere in pratica qualcosa di assolutamente unico e ha ridato dignità ad uomini che non ricordavano più di appartenere al genere umano perché, come egli stesso dichiarava, “erano stati trattati per così tanto tempo da bestie, da avere dimenticato il loro essere umani”.


A Franco Basaglia , come detto, si deve l'introduzione della "legge 180/78", dal suo nome chiamata anche Legge Basaglia, che introdusse una importante revisione ordinamentale sui manicomi e promosse notevoli trasformazioni nel trattamento delle malattie mentali.

sabato 6 febbraio 2010

Ciao Sandro... Lettera a G (video)



Dopo un giorno di silenzio, per far parlare l'anima e sgonfiare il cuore dal dolore...
dopo aver ricordato quello che abbiamo vissuto insieme, soprattutto le tante e interminabili partite di calcetto dove praticamente era sempre una sfida fra me e te, i migliori delle rispettive squadre (senza falsa modestia, lo sapevamo io e te di essere forti e quando capitavamo nella stessa squadra erano dolori per gli altri!)...non potrò mai dimenticare la tua risata e la tua esplosiva, esuberante voglia di vivere!!
Al termine di questo viaggio, anche se non ci siamo mai frequentati più di tanto e non c'era un'amicizia concreta, ma un legame c'era comunque...
Voglio salutarti così, allegando questa canzone di Luciano, tuo e mio..."nostro" grande MITO, che sembra aver scritto queste parole proprio per te, per oggi...
Insieme alle sue parole e alle lacrime che gonfiano i miei occhi ma non vogliono uscir fuori, ti mando il mio pensiero, la mia preghiera e tutto il mio affetto...
Ciao Sandro, un giorno ci ritroveremo, lo so...e sarà un'altra bella partita!!

giovedì 4 febbraio 2010

Adolescente si uccide, l'annuncio su Facebook

Lo studente di 17 anni si era iscritto ad un gruppo chiamato "Hai mai pensato di farla finita?"
04 febbraio, 14:29 dall'ANSA


TREVISO - Pochi giorni prima di uccidersi, sparandosi con il fucile da caccia il padre, si era iscritto su Facebook ad un gruppo di discussione chiamato "Hai mai pensato di farla finita?". Lo studente di 17 anni di Ponte di Piave (Treviso), che martedì si è tolto la vita lasciando un biglietto ai genitori per spiegare il suo male di vivere, aveva già affidato al social network un evidente indizio della sua intenzione di farla finita. Il ragazzo si era iscritto al gruppo il 29 gennaio scorso alle 19.07, riportano i giornali locali, segno che stava già meditando il tragico gesto che poi quattro giorni dopo ha messo in atto. Sul web lo studente-modello aveva lasciato anche un 'indizio' di come stava meditando di uccidersi: qualche giorno prima si è seduto davanti al computer e ha inviato la foto di un fucile a un gruppo dedicato alle doppiette, proprio come quella del padre che poi ha imbracciato per farla finita.

mercoledì 3 febbraio 2010

Troppo internet? Rischio depressione

UNO STUDIO DELL'UNIVERSITÀ DI LEEDS
Troppo internet porta alla depressione
È possibile che chi sostituisce le relazioni sociali reali con quelle virtuali sia più a rischio isolamento e depressione



MILANO- L'utilizzo eccessivo di internet potrebbe causare depressione. Ma potrebbe essere anche il contrario: cioè chi è già più incline alla depressione è maggiormente spinto a passare molte ore sul web. È il risultato di uno studio pubblicato sulla rivista Psychopathology. Gli esperti dell'Università di Leeds hanno intervistato 1.319 persone tra 16 e 51 anni raccogliendo dati sul loro uso di internet e valutando la presenza e l'entità di sintomi depressivi; l'1,2% del campione è risultato affetto da dipendenza da web ed è emerso che l'essere connessi per un tempo eccessivo è associato a sintomi depressivi. È possibile che chi usa troppo internet al punto da sostituire le relazioni sociali reali con quelle virtuali sia più a rischio isolamento e depressione.
DEPRESSIONE - «La nostra ricerca indica che l'uso di internet è associato a depressione», spiega Catriona Morrison, che ha guidato lo studio, «ma ciò che non sappiamo è se c'è un meccanismo di causa-effetto, ovvero se internet causa la depressione o se invece chi è depresso tende a collegarsi di più al web. Quello che invece è chiaro», aggiunge Morrison, «è che per un piccolo sottogruppo di persone l'eccessivo utilizzo del web potrebbe essere una spia allarmante di una tendenza alla depressione».

GIOVANI - Nel corso della ricerca il gruppo di lavoro ha controllato giovanissimi, ragazzi ma anche adulti che usano la Rete per lavoro. Scoprendo che a rischiare di cadere nella trappola della dipendenza sono più spesso i più giovani: l'età media del gruppo degli «intossicati» è infatti di 21 anni. La ricerca «rinforza i timori già sollevati dagli esperti: farsi prendere troppo dai siti web fino a sostituire le normali funzioni sociali potrebbe essere collegato a problemi piscologici come, appunto, depressione e dipendenza», dice la ricercatrice. Inoltre se appena l'1,2% dei soggetti monitorati è risultato «drogato» del web, il problema comunque ha un'incidenza maggiore rispetto ad esempio al gioco d'azzardo patologico, che in Gran Bretagna è dello 0,6%.

Redazione online del Corriere della Sera
03 febbraio 2010

martedì 2 febbraio 2010

Inauguro il mio blog con questo articolo sulle dipendenze...

Scoperta a Napoli una nuova terapia per la dipendenza da cocaina e crack

La dipendenza da cocaina si avvia a rappresentare una delle emergenze sanitarie presenti non solo nel nostro paese, ma a livello dell’intera società occidentale.

Da oltre un ventennio la diffusione della cocaina negli Stati Uniti d’America ha assunto la portata di una vera e propria epidemia. I dati provenienti dal “National Household Survey” indicano che negli USA la cocaina è usata da 2,3 milioni di persone, 5 volte di più di coloro che assumono eroina (Substance Abuse and Mental Health Administration, 2004).

Dal 1990 il consumo di cocaina in Europa sta assumendo lo stesso andamento statunitense e i disturbi correlati all’uso di cocaina stanno divenendo sempre più dilaganti (EMCDDA, 2004). L’incremento dell’uso di cocaina nelle donne è raddoppiato negli anni dal 2001 al 2005; anche per i maschi abbiamo assistito ad un aumento dei consumatori di cocaina passando da una prevalenza del 2,6% nel 2001 al 4,3% nel 2005. I dati diffusi nel 2005 dal Dipartimento Nazionale Antidroga indicano anche la progressiva riduzione dell’età d’inizio del primo consumo (tra 11 e 17 anni).

In Europa il suo consumo “é in costante crescita”. Ne fanno ricorso, oramai, oltre 4 milioni di persone. Essa è di gran lunga “la sostanza stimolante più diffusa nella maggior parte dei paesi della “Vecchia Europa”.

Gli studi effettuati in campo farmacologico sono stati, finora, poco produttivi, probabilmente per la scarsa conoscenza dei correlati neurobiologici della dipendenza cocainica, sia relativa alle condizioni pre-patologiche che allo stato cronico di dipendenza.

La cocaina, una volta assunta dal soggetto, svolge la propria azione è a livello recettoriale bloccando il meccanismo di “ricaptazione” della dopamina inibendo il carrier che si trova sulla membrana sinaptica che ha la funzione di “richiamare” all’interno il neurotrasmettitore. La conseguenza è che il neurotrasmettitore permane per molto più tempo nello spazio intersinaptico, determinando, così, una massiccia stimolazione dei recettori, e ciò crea le sensazioni di gratificazione rendendo il consumatore “iperattivo”. L’attività farmacologica della droga è legata prevalentemente all’azione sui recettori dopaminergici post-sinaptici ed è correlata all’aumentata quantità di dopamina presente nel sistema limbico (a livello del nucleo accumbens).

Complessi meccanismi di neuroplasticità e neuroadattamento, che coinvolgono anche i recettori per gli oppioidi, stabilizzano la formazione di circuiti neuronali iperfunzionanti, determinando, così, le dinamiche neurobiologiche che sostengono la dipendenza.

Negli ultimi anni l’attenzione dei ricercatori si è rivolta a varie classi di farmaci, dai dopaminoagonisti agli anticonvulsivanti, fino ad arrivare ai farmaci antipsicotici, tuttavia tali sforzi, sino ad oggi, non avevano ancora prodotto risultati univoci né definitivi.

Nel mese di Novembre dello scorso anno sono stati presentati, al convegno regionale della Federazione dei Servizi per le Dipendenze, i primi risultati di uno studio effettuato a Napoli dal Dott. Vincenzo Barretta e dai suoi collaboratori. E’ stata individuata una strategia di intervento farmacologico in grado di agire sulla dipendenza da cocaina, riducendo il craving per la sostanza.

I risultati sono stati molto interessanti, poiché una elevata percentuale di soggetti grazie alla nuova terapia, è riuscita ad allontanarsi dalla droga.

Grazie all’associazione di varie molecole operanti in sinergia, viene consentito l’utilizzo di bassi dosaggi dei farmaci, con un profilo di effetti collaterali assolutamente trascurabile. Considerando che fino ad oggi non erano state individuate terapie specifiche per la disassuefazione dalla cocaina, tale successo risulta particolarmente importante.

Vincenzo Barretta, Psichiatra e Psicoterapeuta, ha inoltre inserito il trattamento farmacologico all’interno di un programma multidimensionale elaborato ad hoc, che prevede interventi psicologici, counseling ed altre terapie in modo da migliorare e prolungare i benefici del trattamento.